Lettera a Fabrizio Ciappi nel secondo anniversario della sua scomparsa.
Riduzionismo scientifico, economicismo e conflitti d’interesse in medicina
Caro Fabrizio, tutto è cambiato da quando il mondo, pochi mesi dopo la tua scomparsa, ha scoperto il nuovo mostro pandemico, un virus dal nome criptico, un acronimo scientifico-militare – COVID-19 – contro il quale, a sentire i media, l’umanità intera è entrata in guerra.
“La politica fa quel che dice la scienza” è il nuovo mantra mediatico, ossessivo, martellante, riproposto orwellianamente a ogni ora del giorno e della notte.
Ho ripensato a tutti i ragionamenti sulla semplificazione, la sparizione del tempo, il progressivo impoverimento del pensiero e del linguaggio, ai temi di fondo del nostro libro.
Gira e rigira, torniamo sempre lì.
Nel giugno 2020, l’amico Rino Di Giorgi esprimeva molto bene il nostro comune sentire pubblicando questa semplice riflessione nel nostro gruppo WhatsApp:
Spesso mi capita di pensare: “Chissà cosa direbbe Fabrizio in questa circostanza?”
Per una singolare o forse non troppo singolare coincidenza, nei tuoi ultimi giorni di vita abbiamo parlato anche del ripetersi di influenze virali da mutazioni intraspecifiche. Le definivi “malattie di contesto” (ecologico, sociosanitario, culturale) e non mostravi alcuna fiducia nelle strategie “problem solving” dell’industria farmaceutica che anzi, attraverso lo stratagemma della medicalizzazione di massa e dell’iperconsumismo di farmaci, consideravi come il vero strumento della privatizzazione dei sistemi sanitari pubblici. Soprattutto eri preoccupato per la completa sussunzione della scienza agli interessi della tecnologia consumistica e per la deriva “scientista”, e cioè riduzionista, dogmatica e banalizzante, della sua rappresentazione sociale.
Non ti stancavi, infine, di ricordarmi la grande differenza fra scienziato e medico.
Mentre il primo vive all’interno delle certezze di un mondo paradigmatico e razionale regolato dalle leggi della ricerca e della verifica logica e sperimentale, il secondo vive invece della continua incertezza ma anche dell’infinita ricchezza delle sue relazioni con i pazienti, nel quadro etico del Giuramento di Ippocrate.
Sembra insomma che, nell’attuale evenienza pandemica, l’equivoco più grande consista proprio nel confondere scienza e medicina, pensiero scientifico e pensiero medico, agire scientifico e agire medico.
Ho pensato perciò che potesse essere utile proporre, qui in anteprima fra pochi ma fedeli amici e compagni d’arme, una sintesi di uno dei Quaderni chiave del libro. Un capitolo tratto da quella tua memorabile relazione introduttiva al Convegno internazionale “I linguaggi della mente” organizzato a Umbertide nell’ottobre del 1992, “Le stanze del pensiero medico”, intervento che abbiamo ampiamente rivisitato e arricchito nell’estate del 2018.
La salute è un progetto politico
Prologo
Introdurre, nel senso di far sì che si possa entrare nel tema, è da sempre un’opera molto ardua.
Proveremo perciò a svolgere tale compito partendo da un’emozione.
Il ricordo della lunga battaglia per la Legge 180 e di tutta l’opera teorica anticipatrice la riforma.
Negli anni Settanta partimmo, assieme a molti altri. dal punto più debole della medicina, dalla psichiatria dei manicomi, dalle sale di aspetto in attesa del “progresso neopositivista” tecnologico e della ricerca biomedica, con un pensiero forte.
Un pensiero scientifico e politico, una presa di posizione che poteva apparire utopica, ma che invece si è realizzata in modo concreto e, nonostante tutto, irreversibile.
Un approccio rivoluzionario.
L’invenzione che rende possibile curare anche il malato più grave senza segregarlo, rispettandone i diritti alla malattia, alla cura e alla cittadinanza, alla relazione e al dialogo. Anche l’apparente non senso ha un senso. Anche chi sembra non pensare, sta pensando.
E’ competenza nota dei sistemi viventi umani quella che li vede costretti/liberi di conoscere per vivere e viceversa.
Tutto si pone in uno spazio di relazione e in un tempo di rapporto in cui il pensiero medico incontra il pensiero del malato. Anche quando si fa ricerca, sia essa storica che scientifica, ai confini delle attuali forme di patologia, anche di quelle più terribili: la schizofrenia, il cancro, l’AIDS o [la pandemia virale].
Un cambio di paradigma.
La malattia è una competenza strutturale del sistema vivente umano, volta a mantenere il più possibile protetta la sua organizzazione, la sua grammatica, per non farlo cambiare di stato: la morte, il passaggio da individuo ad ambiente per altri individui. Malattia come difesa estrema e radicale per continuare a conoscere e a pensare, anche se sappiamo che tale difesa può avere un esito incerto.
Le cinque forme del pensiero (o modi di organizzare il mondo).
Certo si può convenire con Gerald Edelman, Premio Nobel della medicina, sul fatto che la scienza sia uno dei più importanti risultati raggiunti dalla coscienza umana e forse la massima conquista culturale comune. Si può anche dire però che la concezione scientifica, per quanto grande, derivi da altri ingredienti culturali e non li imponga.
La scienza è solo una parziale esperienza della coscienza che può organizzare l’esperienza, la novità, la malattia, anche in altre forme altrettanto nobili se risultano utili.
La magia, il sacro, i miti possono sempre venire in soccorso e convivere con il pensiero scientifico all’interno di una comunità.
Pensare in medicina.
Il ricordo di un medico, da poco rientrato dalla Somalia, descriveva un bambino con la scrofolosi da lui e dai suoi colleghi ben curato con gli strumenti della medicina ufficiale. Nello stesso tempo altri bambini erano altrettanto ben curati dallo sciamano con piccole scarnificazioni sulla fronte.
Si apre un tema che è tutto da svolgere. Mito, magia, religione, scienza e “psicopatologia”: ecco i cinque modi di organizzare il mondo, le cinque forme del pensiero del sistema vivente umano.
La salute è un progetto politico.
La situazione di oggi, la tendenza generale è quella di ridurre la capacità di pensare.
Si sostituisce al pensiero la rendicontazione, alla fantasia, all’invenzione, alla creazione possibile di nuovi mondi, la freddezza delle cifre che porta – come paradosso – a “ragionare in medicina”, non nel senso di parlarne ma in quello, letterale, della mera ragioneria.
“Per poter volare occorre correre contro il vento”.
Pensare in medicina è occuparsi di salute? Occuparsi cioè di come salute e malattia si sono articolate nella storia e vengono oggi identificate?
Se è così, allora questo è un compito politico.
La salute, oltre ogni definizione data, resta un’utopia o meglio, come direbbe Heinz von Foerster, una atopia.
Non sta da nessuna parte, non ce n’è mai abbastanza se per salute si intende libertà, moltiplicazione delle dipendenze per essere autonomi, capacità di utilizzare tutte le risorse date all’uomo dalla sua evoluzione.
É il progetto politico che governa una comunità locale, nazionale o mondiale che decide della quantità.
La qualità poi riguarda i vissuti e i desideri di ognuno, l’ineffabilità degli incontri.
Allora pensare in medicina è condurre un ragionamento politico attorno alla salute, alla sua promozione e alla prevenzione di possibili danni.
Ecologia della politica, ecologia del benessere, parole e pensieri difficili da esprimere in questi momenti. Sono stati svuotati e non sono più stati riempiti di significato e di senso.
Un sistema chiuso che produce infinite combinazioni di senso.
Pensare in medicina rimanda al suo oggetto, al pensiero, al contenuto o ai contenuti di questa struttura formale.
Il prodotto della attività dei cento miliardi di neuroni e del milione di miliardi di connessioni sinaptiche che abbiamo in testa è il pensiero.
Pensiero e linguaggio, sulla base dell’organizzazione sociale e degli scenari culturali di ogni determinato contesto storico, si articolano in contenuti di senso, in oggetti mentali, in costruzioni di mondi, in invenzioni.
Oggi il pensiero in medicina non si esaurisce dentro il discorso medico, non è più appannaggio della ricerca mirata e imprigionata di questo o quel laboratorio di biologia sperimentale o applicata.
Non è più possibile ricercare le radici della vita e quindi anche della malattia, affondando l’occhio oltre il vivente, nelle sue determinanti fisiche e chimiche.
I sistemi viventi sono sistemi di relazioni che pur partendo dalle lettere del loro alfabeto, per necessità chiuso, si articolano attraverso regole di combinazioni in una straordinaria varietà di contenuti di senso, sano o patologico.
Un infinito in forma finita.
La riflessione in medicina non è più appannaggio dei tecnici abilitati all’esercizio di questa professione.
Epistemologia, ecologia, principio di indeterminazione, teorema di incompletezza, processo stocastico ed epigenetico, equilibrio omeostatico, soglia dell’ansia, perturbazione e compensazione, darwinismo neuronale, cibernetica del secondo ordine…. sono solo alcune delle discipline, dei paradigmi e delle nozioni che accompagnano il pensiero medico oggi.
Sempre di più gli incrementi del sapere, la discontinuità nella continuità del discorso scientifico delle discipline biomediche, nascono in altre zone della conoscenza.
Si tenta di colmare l’ignoranza dell’ignoranza di fenomeni, di strutture non note, con invenzioni realizzate in aree anche molto, molto lontane dai territori di applicazione della medicina e della clinica.
Le fibre ottiche e i sistemi di puntamento, i raggi laser e le teorie della comunicazione, ad esempio, sono nate e si sono affermate per scopi altri da quelli relativi alla cura delle malattie. Anzi gli scopi erano spesso molto diversi.
Le ricadute di tali conoscenze permettono oggi al malato di ernia di entrare in ospedale di prima mattina e di essere a casa per il pranzo. Un’operazione di splenectomia si risolve in tre giorni e richiede due operatori, mentre prima occorreva una degenza di 15 giorni e l’intervento di cinque medici.
Riduzionismo, economicismo e aziendalizzazione.
Contro ogni logica previsione questo “risparmio” ha fatto, stranamente e inevitabilmente, aumentare i costi della gestione pubblica della salute.
Probabilmente causa l’introduzione dell’interesse e del profitto privato all’interno dell’istituzione sanitaria pubblica – i produttori di tecnologie avanzate e di farmaci sempre più “evoluti” – è sembrato più efficiente concepire l’ospedale come un’azienda (stipendi dirigenziali compresi).
L’aumento vertiginoso dei costi e l’impoverimento complessivo del servizio ci insegnano però quanto impropria e improvvida sia stata la scelta di aziendalizzare la salute.
Come d’altronde è avvenuto per la scuola e l’università e, in generale, per la gestione della res publica e il mondo delle arti e dei mestieri, delle professioni.
L’egemonia culturale del privato sul pubblico.
Si diceva che la salute non ha prezzo, essa va invece considerata come l’indice di civiltà di una popolazione.
Si può dire ora purtroppo che ogni vita ha un prezzo il quale, una volta aziendalizzato, determina una sospensione del pensare in medicina.
D’altronde le teorie di uno stato neoliberista – perdonerete la digressione – non prendono in considerazione almeno un terzo della popolazione, condannato a non avere mai né potere né ricchezza. Figuriamoci istruzione o salute.
Ma se torniamo all’esempio dell’ernia e della milza e alle ricadute della conoscenza trans-disciplinare, vedremo che esso introduce un altro spiraglio di riflessione.
Descrizione semplice o semplificazione?
Quello della brevità della descrizione, della descrizione semplice. che non è sinonimo di semplificazione.
Einstein disse un certo giorno “E = MC2 “; questa è una descrizione semplice che però contiene l’universo al suo interno, e rimanda a un infinito di processi che non possono essere disconosciuti.
Pensare in medicina è tutt’altro che semplificare, anche se occorre pervenire a descrizioni semplici.
Il Sistema Vivente Umano.
Il sistema vivente umano è, come dice Edgar Morin, una macchina virtuosa capace di rispondere a ogni perturbazione, a ogni aggressione sul piano organizzazionale, con una struttura che non è altro che una compensazione.
Quindi perturbazione e compensazione distinguono il vivente dall’input/output della macchina banale.
La compensazione è volta a salvaguardare il divenire del sistema, la sua sopravvivenza, la continuazione del sua itinerario di conoscenza.
Organizzazione e struttura sono descrizioni semplici, non semplificazioni, sono concetti esplicativi del vivente, sano o malato.
L’organizzazione è il sistema grammaticale combinatorio che è invariabile all’interno dei suoi equilibri di fluttuazione. Questi equilibri, per dirla con Prigogine, sono raggiunti per essere subito disfatti e ricostituiti in modo ricorsivo.
Le strutture sono possibilità infinite in un universo finito per rispondere alle perturbazioni del vivente.
Una saggia struttura.
Ciò che siamo abituati a chiamare malattia è una struttura saggia, sperimentata in centinaia di milioni di anni della nostra storia naturale, che risponde ad una perturbazione rispetto alla quale il sistema vivente non sarebbe riuscito ad evitare il suo limite: il cambio di stato, la morte.
E continuando a procedere nell’universo del pensiero medico mi viene necessario sottolineare che questo pensiero non è un assoluto.
E’ riferito a questo momento storico, politico, culturale, a questo pensiero scientifico che prevede la costituzione di una epistemologia del malato, costruita nel rapporto con chi ha la competenza e il dovere di occuparsene.
Ritorna qui l’emozione e il ricordo dei nostri anni di lotta per la 180, degli studi e dei discorsi febbrili, delle intuizioni e delle anticipazioni comuni.
Pensare per malati e non per malattie.
[Mai come oggi è necessaria] una critica radicale alla rappresentazione “naturalistica” delle malattie che si manifestano aggredendo il corpo, come in una lotta senza fine tra il bene e il male. [La guerra contro il virus, ad esempio].
La malattia come colpa, come peccato, come giusta condanna per chi non si attiene ai principi dell’educazione sanitaria, dell’igienismo più retrivo e integralista.
E qui il pensiero lucido e fecondo di Mirko Grmek, storico della medicina: ragionare per malati, non ricercare similitudini ma differenze rispetto ai quadri nosografici sanciti dalla nosografia ufficializzata nella storia di un pensiero medico. Non del pensiero medico.
Si parlava di salute e si introduce il concetto di norma che diventa normativa, prescrittiva di comportamenti normali. Questo vale in particolare in psichiatria.
Si sa per fortuna che il comportamento umano non è prevedibile.
Ma questo, paradossalmente, non vale per il pensiero medico: stabilire parametri di normalità, astorici, a-personali e anche poco scientifici, finisce per scaricare sulla testa e sul corpo del malato qualsiasi responsabilità, permettendo alla sperimentazione medica di aprirsi alle più stravaganti bizzarrie.
Nel secolo scorso, in Bologna la dotta, si era pensato, nella Scuola di Malpighi, che una possibile terapia per la schizofrenia potesse consistere nell’amputazione dell’alluce.
Scienza – magia – superstizione e quant’altro si ripresentano sul teatro della eterna rappresentazione fra la vita e la morte, fra la farsa e la tragedia.
Farsa e tragedia dei poteri forti e consolidati dell’accademia, dell’ordinamento delle università di medicina tese a salvaguardarsi con la moltiplicazione delle iperspecializzazioni, il consolidato delle caste così lontane dalle realtà della sofferenza. Il potere degli apparati deciso sul numero di spazi e di letti occupati, aldilà di ogni progetto volto al benessere, la difesa delle appartenenze che disconosce i valori di riferimento, vero oggetto di pensare in medicina.
Pensare è svelare, togliere le coperture di falsa ideologia e di reale gioco di potere che consentono il perpetuarsi dell’esistente, di certo non negli interessi dei malati.
Cinque straordinarie proprietà.
Il sistema vivente umano nasce con cinque interruttori biologici: la fame, la sete, il sonno, la sessualità che lo apre al mondo, il bisogno di conoscenza, la pulsione epistemofilica che gli permette di vivere.
La cultura, le forme e i contenuti del pensiero, il linguaggio fanno presa su questi cinque interruttori e li ridefiniscono in modo assoluto.
Può accadere che l’interesse dell’altro, in questo processo di ridefinizione, diventi il mio bisogno, che può essere anche il bisogno di malattia, come riconoscimento di uno status altrimenti assente e destrutturante.
Il sottosuolo.
Oggi, grazie ai processi e agli strateghi della aziendalizzazione, ci hanno ridotto a lavorare nel sottosuolo.
All’epoca dell’applicazione della Legge 180 e del suo governo da parte della pubblica amministrazione il 100% dei fondi stanziati per la prevenzione sociale della salute andava alla Psichiatria. Oggi (non a caso operiamo nelle cantine), con il “governo” delle Aziende Sanitarie, la Psichiatria rappresenta solo lo 0,5% del loro bilancio annuale. La prevenzione sociale e l’assistenza territoriale sono pressappoco nelle stesse condizioni in tutto il Sistema Sanitario Nazionale.
È forse normale che in cantina siano nascosti i temi più difficili: la cronicità, l’invenzione burocratico-amministrativa della lungo-degenza o della lungo-assistenza, i nodi della riabilitazione, dei quadri patologici che accompagnano l’umano per tutta la sua biografia.
E non dimentichiamo che nel prato antistante queste cantine duellano, non solo all’alba di oggi, i due irriducibili nemici, il sociale e il sanitario che, invece, nell’intento dei padri della riforma del Servizio Sanitario Nazionale, non avrebbero certo dovuto trovarsi su fronti così avversi ma, anzi, interagire e integrarsi nell’interesse pubblico.
Ancora non si conosce l’esito del duello che ogni volta va in riedizione.
Esso rispecchia la dualità mente-corpo, parola-silenzio, contrattualità e assenza di potere.
La malattia e il rito medico garantiscono che questi problematici processi rimangano sullo sfondo.
La figura in superficie diventa il sintomo, il corpo malato oggetto della clinica, oppure la mente malata della quale provano a riappropriarsi i fautori dell’elettroshock e delle varie forme di “contenzione”.
Fuor di metafora.
Theodor Adorno afferma che presentare processi della grande industria come conflitti fra erbivendoli truffaldini è un procedimento adatto a provocare uno shock di breve durata, ma non certo un dramma dialettico.
La rappresentazione del tardo capitalismo con immagini tratte dal mondo agrario o da quello criminale non fa emergere nella sua brutale evidenza la mostruosità della società attuale, della sua straordinaria capacità di mistificazione e camuffamento mediante fenomeni e strumenti pervasivi e complessi.
Così si interpreta la presa del potere da parte dei più forti in termini in fondo molto innocui, come il complotto o la macchinazione di racket al di fuori della società – magari da parte di sanguinari terroristi, feroci scafisti, cinici caporali, laboratori virali, finanzieri perversi o persino di ONG – e non come compiersi della società in sé.
Per finire, forse il più noto degli aforismi di Karl Kraus:
“Tutta la vita dello stato e della società è fondata sul presupposto che l’uomo non pensi. Una testa che non si offra in qualsiasi situazione come un capace spazio vuoto non avrà vita facile nel mondo.”
Insomma, nonostante tutte le difficoltà della vita (e della storia), è indispensabile continuare a pensare.